di Angelo Contarino
Pubblicato sul numero 16 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia
In genere si dice che l’azione del terapeuta, dell’operatore della relazione d’aiuto, dell’amico che ascolta, è tesa a far sì che la persona conosca il suo mondo interiore e possa operare per il suo bene, perché le cose funzionino meglio e sia più felice.
Con altre parole, prese dal linguaggio della filosofia, si potrebbe dire che chi aiuta deve avere nozioni ed esperienza nel campo della conoscenza(logica-gnoseologica e dell’etica. Del conoscere e del fare.
E il sentire? E il percepire?
Chi può aiutare a sentire in un altro modo, ad ampliare la propria percezione di sé e degli altri, a percepire oltre i propri occhiali, a fare attenzione alla forma oltre che al contenuto, al silenzio tra una nota e l’altra della vita e allo spazio che le contiene?
Molti dei nostri problemi derivano proprio dal modo in cui percepiamo le cose e dal modo in cui immaginiamo una soluzione.
Ci può essere cambiamento senza la maturazione di una nuova percezione, di un nuovo punto di vista, di un nuovo sentire?
Questo tradizionalmente sarebbe un campo dell’estetica e della spiritualità, che tanti contatti hanno tra di loro, ma si può ben dire – e opportunamente Paolo Quattrini ci richiama l’attenzione su questo – che alcuni problemi da risolvere hanno una connotazione estetica e che la dimensione estetica è altrettanto importante delle altre due: la logica legata alla conoscenza e l’etica relazionata con il buon fare.
Fare attenzione alla dimensione estetica della vita significa affinare le proprie “lenti” di essere umano e operatore nella relazione d’aiuto.
A me pare che la profonda,“archeologica”, e originale riflessione di Paolo Quattrini non solo consente di seguire e comprendere il sorgere della Gestalt nel contesto filosofico, scientifico ed artistico in cui è incastonata, ma, tenendo sempre presente la sua dimensione estetica, è un prezioso veicolo per intendere il valore centrale dell’ars imaginativa nel processo di restauro e/o ricostruzione dell’edificio umano per elevare la qualità dell’esistenza.
La qualità della vita è fatta di funzionalità ma anche di godimento estetico.
Se uno dovesse immaginarsi un posto comodo in cui vivere se lo immaginerebbe spontaneamente anche bello.
In un racconto orientale si dice che lungo la via commerciale che da oriente conduceva ad occidente passavano lunghe carovane di cammelli che portavano, tra le molte cose, anche sacchi di thè.
Molta gente aveva visto le preziose foglioline e pensava di sapere che cosa fosse. Quando finalmente un gruppo di persone decise di provarla e ne sentì il gusto allora comprese che cosa fosse. Non era questo, non era quello e nemmeno quell’altro, ed aveva un gusto inconfondibile. Per conoscere in profondità bisogna anche gustare, sperimentare, assorbire.
Il senso di piacere che resta sul palato di chi assaggia il thè parla di qualcosa che è diverso dal bene che se ne può ricavare per l’organismo, anche se è intrecciato ad esso. Va oltre l’etica -lo prendo perché mi fa bene- e va oltre la classificazione logica. Il gusto è imparentato con il bello e può andare oltre la funzionalità e la logicità. La dimensione del gusto, del sentire un certo sapore, dell’apprezzare il bello, dell’ascoltare i suoni e quant’altro nobilita le nostre percezioni sensoriali e il nostro organismo, è parte importante dell’estetica.
Immagino – perché nella storia non si racconta – che un giorno passò un individuo, che fermandosi nel villaggio, invitò alcuni amici a prendere il thè, ma questa volta lo servì in maniera cerimoniale.
Ispirato da un sentimento nobile di amicizia e da un senso non lineare del tempo, dedicò una particolare attenzione a tutti i gesti che costituivano il momento del bere il thè: la preparazione dell’acqua, della teiera e delle tazze, del modo di servirlo, di stare seduti, di star bene tra di loro e di sorbirlo. Invitando a scoprire altre scansioni del tempo e dello spazio. Proponendo un’altra forma di prendere il thè.
Immagino che quel thè di cui già si conosceva il gusto lasciò in bocca un altro gusto o completò il gusto conosciuto e rivelò la sua “essenza”. Divenne una conoscenza intima, un sapere, basato sulla grande esperienza del sapore in un contesto di maggior apertura sensoriale ed emotiva. Divenne un’esperienza dai contorni spirituali.
La dimensione estetica, come quella spirituale a cui spesso è associata, è una dimensione sottile: è la dimensione dell’essenza delle cose, della loro “anima”.
E’ più difficile parlarne perchè mostra e parla di modi e di esperienze che non si possono esprimere secondo la logica abituale.
La Gestalt pretende di parlare anche all’essenza della persona, e questo le dà una connotazione estetica e spirituale. Non è solo il fatto che spesso utilizza metodi e strumenti che sono del mondo artistico-creativo e spirituale. La Gestalt insegna all’essere umano a restare in contatto con la sua essenza, la sua “anima”.
La parola estetica rimanda etimologicamnete alle sensazioni -aisthetikòs significa sensibile– a quell’infinito, intimo e sottile repertorio di tracce e segni che la complessità dell’organismo intercambia con se stesso e con l’ambiente.
Gestalt, estetica e spiritualità, in effetti, fanno particolare attenzione alla materia sensoriale e alle percezioni, ai sapori e li nobilitano perché colgono in essi un’esperienza basica della vita: il respiro, il movimento, la forma, il gusto, il modo di essere e di esprimersi, la congruità tra il sentire e l’agire.
Tempi, attenzione, accoglienza, spazio, fanno parte sia dell’estetica, sia della spiritualità, sia della gestalt, come di tutte quelle cose vive che si intendono preservare dal monotono grigiore della vita quotidiana.
Non accontentarsi del superficiale, andare oltre, cogliere l’essenza delle cose, aspirare all’autenticità, sfiorare il senso del sacro e approfondirlo sono caratteristiche di tutte e tre.
Nel “teatro povero” di Grotowski l’azione organica, ispirata, che nasce da dentro e quindi autentica, coglie la dimensione estetica, che è il suo modo specifico di raggiungere il pubblico. Autenticità e grazia, spontaneità e bellezza si intrecciano e si confondono. Se ne riconosce implicitamente la stessa origine.
Nelle tradizioni spirituali vive, la comunicazione dell’esperienza può avvenire attraverso pratiche giocose o artistiche, entrambe di grande valore estetico, come nel buddismo zen, il sufismo, il taoismo e il cristianesimo dei poveri di spirito. La stessa pratica della meditazione e della preghiera ha un suo valore estetico.
La dimensione estetica è sempre lì presente, a portata dei sensi, ci è vicina ma non riusciamo a coglierla, occupati come siamo dal bisogno di sbarcare il lunario o di integrarci di più in una società che ha rinunciato alla felicità.
Essa ha bisogno di tempi diversi da quelli ordinari, di una percezione del respiro proprio e degli altri, di uno spazio per il sentire e il gustare, di silenzio, di vuoto.
La dimensione estetica, come l’etica, è legata ai due principi complementari del “solve et coagula”: il principio di dubitare e togliere ciò che non è così vitale e significativo per l’esistenza umana e quello del contare e affidarsi a ciò che è essenzialmente organismico.
Mentre dunque si valorizza quanto è stato ed è frutto di un’esperienza piena, allo stesso tempo si chiede la disponibilità ad abbandonare le certezze e di spogliarsi, dal punto di vista esistenziale oltre che teorico, di tutto ciò che si sente superfluo e inutile, lontano dalla vita.
Nessun artista è tale perchè aderisce ad una solida teoria estetica. Senza negare l’importanza dei modelli, delle esperienze precedenti, il fatto artistico, che è tale perché assume valore per chi lo compie e per chi ne fruisce, fa affidamento su un fattore esistenziale, di ricerca, creatività e di trasformazione personale.
Pur apprezzando i modelli estetici che hanno costituito la storia del “bello”, non può esserci identificazione con nessuno di essi, perché ciò che può essere definito bello è visto in relazione alla persona, al suo momento, al processo, alla situazione e alle dinamiche più grandi.
Il nuovo umanesimo del secolo scorso, con la sua riscoperta del valore dell’uomo, della relatività, del corpo e dei sensi è servito a maturare anche una nuova idea di “bello”, più aperta e flessibile, che ha superato quella assoluta e tradizionale derivata dal passato.
L’estetica è pertanto legata alla creatività e alla sperimentazione.
Anche la Terapia della Gestalt è un processo sperimentale, che assomiglia più ad un laboratorio artistico che a quello scientifico.
Si creano, nella relazione d’aiuto, e senza pretenderlo, nuove forme, nuove visioni, nuovi orizzonti esistenziali che espandono e completano l’esistenza individuale e collettiva e la rendono più consapevole e bella.
L’accettazione di sé, l’integrazione delle parti, produce spesso una sostanza simile alla bellezza anche esteriore. E’ la magia della presenza, frutto della completezza dell’esserci e della sua spontanea manifestazione.
In realtà un organismo ben integrato non solo funziona meglio ma appare anche più vitale e bello.
La manifestazione autentica ha una sua forza, una sua grazia, una sua bellezza. La congruità tra l’espressività e l’impulso organismico produce una grazia particolare, un profumo personale.
Nel teatro di Grotowski si attende l’azione organica, che fluisce dall’organismo e quando accade ci si accorge della sua bellezza oltre che della sua forza.
La “povertà” del teatro di Grotowski è da relazionare allo spogliarsi degli elementi inutili, falsi, automatici e ridondanti dell’azione teatrale e dell’agire umano.
Il processo organismico non si può dare senza la complementare azione del levare, del destrutturare, del vuoto.
Ma il vuoto a cui ci si riferisce non è da intendere come vuoto in sé, il nulla assoluto, quanto piuttosto come vuoto fertile. In sintonia con le tradizioni spirituali orientali, si tratta di un vuoto che ha come riferimento il suo opposto, il pieno .
L’esserci spesso non è così pieno, si ritaglia uno spazio di sterile esistenza e solo il collegamento all’essere lo può vivificare. Ma questo collegamento richiede un abbandono dei punti di sicurezza, degli orizzonti conosciuti e invita ad un attraversamento del vuoto.
“ Io non mi sento più sicuro di niente. Molte delle mie convinzioni passate ora le metto in dubbio… Ho capito bene quanto sono piccolo nell’universo e che ne rappresento una piccola parte”. Belle, preziose, queste parole mi sono sembrate quando le ho sentite pronunciare in un recente convegno di Gestalt a Trieste da Sergio Mazzei, uno dei primi e apprezzati gestaltisti italiani, che ha colto e proposto sempre la dimensione sottile, spirituale, dell’incontro umano anche nel campo psicologico.
Mi sembrano il segno di un percorso di ricerca umana e spirituale che percepisce nel campo delle relazioni, nella mancanza di esistenza in proprio, nel vuoto fertile, il tessuto connettivo della vita.
Il vuoto fertile coglie il senso del processo, della “impermanenza”, per cui tutto passa e tutto si trasforma, una composizione in cui l’individuo è la tessera di un mosaico biologico naturale in evoluzione. Il divenire individuale è in relazione non solo alle relazioni orizzontali, con gli organismi degli altri sistemi – famiglia e i diversi gradi di ambiente fisico e affettivo- che in qualche modo lo compongono e strutturano, ma anche alle relazioni verticali, con quanto lo ha preceduto sia a livello biologico che psicologico. Il vuoto fertile è in relazione al principio della relatività universale e quindi dell’interconnessione universale.
Accettare l’unità della vita nelle sue profonde diversità, percepire che l’uomo e la natura non si possono separare, che l’uomo è natura in evoluzione, dotato di organi sottili ma anche di tessuti meno specializzati e quasi materiali, come le unghie e i capelli, ci può condurre al superamento di quel pregiudizio esistenziale e intellettuale che l’uomo è quello che deve domare la natura e piegarla ai suoi fini, può facilitare la trasformazione della percezione che l’uomo e l’umanità siano separati da ciò che li circonda, può far fecondare la percezione di un sé interconnesso, meno granitico ma più fluido e vitale. Un sé difficile da definire in se stesso, visto che la sua natura è di essere relazione, in relazione spazio-temporale. Dal punto di vista etico ricordare tale origine significa esaltare la dimensione del “noi”, dell’essere in connessione con le persone e gli esseri della natura. Significa accogliere il concetto di un essere di relazioni al suo interno, in relazione con l’ambiente. Edgar Morin la definisce “relianza”. “Relianza con un altro, relianza con una comunità, relianza con la società, e al limite con la specie umana.”
Significa comprendere che non esiste beneficio esclusivamente individuale e che la propria azione avrà mille risvolti e conseguenze nel grande mare della vita. Significa dunque essere consapevoli della dimensione ecologica dell’azione e della sua congruità con l’ambiente.
Dal punto di vista estetico significa che il nostro fare creativo, artistico, la manualità e la conoscenza, la stessa creatività sono frutto di tracce e percorsi diversi che si incontrano e si separano a diversi livelli e dimensioni e che pertanto si possono aprire agli influssi di qualsivoglia elemento estetico universale. A condizione che non sia giustapposizione e citazione ma rielaborazione essenziale e personale.
Il vuoto fertile è la condizione della dimensione estetica, di quella spirituale ed anche della Gestalt. Corrisponde al levare i veli di maya, alla sperimentazione, alla ricerca, allo stile personale e autentico, alla leggerezza dell’essere.
Nello Zhuangzi si fa spesso riferimento alla forza del vuoto: “ L’artigiano Shui torniva oggetti così perfetti che sembravano disegnati con il compasso e la squadra; il suo dito seguiva la forma delle cose senza che la sua coscienza intervenisse. Giungeva a simile abilità perché la sua anima, concentrata, era libera da ogni ostacolo”.
Si può scorgere in tale frase un riflessione sul vuoto : non c’è bisogno di mezzi sofisticati, “occorre seguire la forma delle cose e fare il vuoto dentro di sé, aiutandosi con la concentrazione”.
Il silenzio e le varie forme di meditazione sono il giardino dove cresce bene il vuoto fertile, che ha per sua natura la forza della fecondazione e diventa principio di creatività nell’individuo e nella sua opera.
Prendendosi cura del proprio giardino si alimenta la tensione continua e spontanea verso la creazione di nuove forme e visioni, lo spostamento degli orizzonti, il richiamo all’autenticità, l’aspirazione alla completezza e alla integrazione armonica. Alla bellezza.
Le pratiche meditative sono spesso basate sul respiro e sulla percezione corporea, sul silenzio e l’ascolto, sull’orientamento spontaneo della propria bussola interna verso ciò che c’è ma non si vede, verso un mondo di possibilità, verso la potenzialità, verso il di più che si può cogliere in tutte le cose. Il “di più” è ciò che ha dato etimomologicamnete origine alla parola magis, da cui magia.
Il mondo della meraviglia, della sorpresa, dello straordinario.
E’ il mondo dello sciamano, egli stesso uomo comune ed artista, che cura se stesso ritornando alle sue origini, le nobili origini dell’essere, che si ricongiunge con la sua anima, a cui lui presta il suo corpo, la sua sensibilità, la sua percezione.
E dal corpo nasce un altro corpo, artistico, attraverso strumenti che sono corporei.
Nasce l’arte. Figlia di una sofferenza che trova accoglienza e che è distillato della dolcezza che la contiene. Figlia anche del godimento e della felicità che trova uno spazio caldo d’accettazione.
Lo sciamanesimo è la prima forma che l’umanità si è offerta di prendersi cura di sé e contemporaneamente la prima manifestazione estetica.
La terapia della Gestalt ha questa esperienza nel suo bagaglio genetico, nel suo back ground culturale.
Perls aveva la facies interna dello sciamano, lo sapeva lui e glielo riconoscevano quelli che gli stavano intorno. Nel suo periodo californiano, il suo operare da vedente, da guaritore delle anime, lo mise in contatto con altri che come lui avevano lo stesso dono.
In un certo senso dire che lo sciamanesimo è nel codice genetico della Terapia della Gestaltsignifica che continua ad esistere oggi, sia per l’operare di quelli che ne continuano a trasmettere l’esperienza sia perché nell’alveo grande della Gestalt c’è l’atmosfera adatta perchè tali talenti sorgano spontaneamente e siano accolti con benevolenza.
Nell’ampio orizzonte della Gestalt, il lavoro di Claudio Naranjo l’ho sempre percepito come teso a ricordare e vivificare l’esperienza di trasformazione propria dello sciamanesimo, insieme a quella delle tradizioni spirituali.
La finalità è la stessa.
L’aspetto transpersonale della psicologia che Naranjo permette di sperimentare nei suoi corsi di formazione continua la linea di Perls e la arricchisce.
La proposta delle pratiche meditative e di fermento energetico, l’ambiente caldo che Claudio Naranjo riesce a generare attraverso di esse, creano il contesto di quieta profondità che permette ai partecipanti di venir fuori con il loro tumultuoso esserci e di accoglierlo nel suo manifestarsi.
Il conflitto si può manifestare nella fiducia del ristabilimento dell’equilibrio organismico.
La dimensione dionisiaca della vita si raccorda con quella apollinea.
Il vitale, con i suoi aspetti convulsi, impulsivi, sacrificati, tormentati, gioiosi, esaltanti, senza speranza, è accolto da uno spazio di benevolenza e amore.
Il mosaico di esperienze che Naranjo propone come complementari all’esperienza meditativa e spirituale sono di origine creativa ed artistica. La stessa pratica della Terapia della Gestalt, uno dei molti ingredienti dei SAT, riscatta “l’eredità californiana”, sensibile più che alle tecniche al sentire intuitivo dell’operatore. Un sentire che può divenire risorsa nel proprio lavoro e filo rosso di una trasformazione personale e collettiva a cui è si fa sempre spazio.
La qualità della vita richiede la soddisfazione di tanti bisogni, da quelli elementari, basici, di una sana e sufficiente alimentazione – che sono ancora dolorosamente lontani per una parte significativa dell’umanità – a quelli di una realizzazione nel campo estetico e spirituale.
Se immaginassimo, si è già detto, un posto dove vivere felici faremmo attenzione oltre che alla sua funzionalità anche alla bellezza e alla pienezza dell’esistenza.
Etica, estetica e spiritualità non si possono separare.
Le pratiche spirituali (le varie forme di meditazione, le pratiche di silenzio, la preghiera recitata e immaginativa, danze e arti di rilassamento e concentrazione, movimenti ispirati) di tutte le tradizioni spirituali vive sono la culla e il collante della varie dimensioni dell’esistenza.
Di tutte si dice che sono una cosa misteriosa, ineffabile – ed è importante avventurarsi nel loro mare sotto la guida di un istruttore, un maestro – ma si può provare a dire qualcosa.
Può sembrare strano che una cosa che mira a realizzare stati di consapevolezza elevati si poggi, per lo meno inizialmente, su uno star seduto, un fare attenzione al respiro, un attivare le sensazioni corporee, un gustare il semplicemente stare, un ricordarsi di avere un corpo e di sentire il processo vitale che si svolge nell’organismo.
In un racconto sufi si dice che per fare un buon pane c’è bisogno di tre elementi: molta farina (grano macinato), una buona dose d’acqua pura (da andare a prendere alla fonte) e un poco di sale (ben depurato). Si fa intendere, metaforicamente, che l’uomo è fatto nello stesso modo: ha un corpo, il grano in buone quantità; emozioni fluide come l’acqua; poco sale ne esalta il sapore. Ma sembra che gli uomini se lo siano dimenticato e si credono frutto di una ricetta in cui gli ingredienti hanno proporzioni invertite.
Ha molto sale in zucca, emozioni stagnanti e contaminate, e poco e niente corposità. Sale per niente depurato dalle incrostazioni dei pregiudizi e le idee folli, emozioni spesso ereditate e tossiche, e poco supporto corporeo, scarsa sensorialità, poca intelligenza corporea, istintiva.
La prima cosa che fa la meditazione, al pari delle altre pratiche, è ristabilire le proporzioni. Ci si ricorda, come ce lo ricorda il nostro codice genetico, che siamo esseri senzienti, con un passato e un presente di istintività e animalità, con respiro e un processo organismico naturale. Si prende contatto con la meraviglia di un essere senziente che funziona bene da solo e che ha una sua bellezza. Si scopre che il corpo è intriso di energia, che esso è animato e che ha una sua matura intelligenza.
E’ come diventare più grandi. Dalla testa che pensavamo di essere possiamo recuperare un enorme territorio che è il nostro.
Possiamo cominciare ad abitare la nostra casa, sentirci bene nella nostra pelle, a sentirci respirare ed essere.
Tutto questo lascia un gusto.
Si sperimenta insieme alla sensazione di qualcosa di buono, la percezione di qualcosa di bello, di sorprendente, di elegante.
Senza negare le difficoltà di stare seduti o in piedi come nel Tai Chi Chuan ed altre pratiche meditative in movimento, la scoperta che il nostro tessuto vitale e energetico è così ampio e la sua integrazione nel nostro vissuto esistenziale può essere un’esperienza profonda ed ispiratrice.
Come lo può essere l’ascolto meditativo della musica.
Nel teatro sperimentale la preparazione psico-fisica è fondamentale, e in un certo senso prevalente rispetto alla stessa attuazione.
Quello che si ricerca nella preparazione è la presenza: l’attore sente la sua presenza, ed anche il pubblico.
Abitare tutto il corpo, sentirsi respirare fluidamente, sentire se stesso nello spazio, concedere spazio a sé e agli altri, permettere che nuove impressioni arrivino alla coscienza, restare recettivo e offrirsi all’esperienza, anche a quella del personaggio, è segno di presenza.
La presenza è una qualità dell’essere: il gatto ha la sua presenza, ce l’ha anche un fiore naturalmente, le montagne hanno presenza, l’uomo ce l’ha ma si dimentica di Sé e in questo dimenticare la presenza s’adombra.
La presenza per manifestarsi ha bisogno una relazione con il tempo e lo spazio diversa da quella abituale.
Cherif Chalakani, un riconosciuto terapeuta della Gestalt, che sintetizza un ampio bagaglio di esperienze, che vanno dal lavoro bioenergetico a quello musicale, come uno sciamano moderno, nei suoi “lavori corporei”, insegna percorsi per ricontattare la presenza, per riscattare l’anima, e dice sorridendo che l’anima ha bisogno di un tempo indio.
L’ho sentito raccontare spesso la scena di un film – ma è così anche nella realtà – in cui le guide del vulcano messicano del Popocatepetl si fermano spesso nella scalata della montagna, molto di più di quanto gli scalatori professionali vorrebbero fare. Alla loro domanda “perché tante soste”, rispondono “per dare tempo all’anima di raggiungerci”.
L’anima ha i suoi tempi, certamente diversi per ognuno, perché è collegata alla capacità d’attenzione nell’esistere. Se non si pone attenzione la sua fiamma si spegne.
Si tratta di un’attenzione priva di tensione, che non tende a controllare, di un’attenzione panoramica che espande la percezione ed è accogliente. Lascia che le persone e le cose si presentino, si manifestino.
La presenza ha a che fare con la sensazione di essere e il sentimento di essere vivo.
Ha bisogno di uno spazio ampio, accogliente, ricettivo, uno spazio più grande del sé e del noi.
Ha bisogno di varcare la soglia dello schema corporeo e sensoriale con cui spesso ci identifichiamo, non si sente ben accolta in un ambiente di fissazioni e ristrettezze emotive, essa è intimamente legata allo spazio delle possibilità e del fluire dei sentimenti, non si sente in sintonia con il “cri cri” del grillo parlante, ha bisogno di un’altra musica, che abbia un altro tono e un’altra profondità, che evochi territori essenziali con cui ricongiungersi.
L’anima e la presenza non si possono incasellare e richiedono una disponibilità ad andare oltre, altrove, una disponibilità alla meraviglia del viaggio, al brivido del volo, al dolore della ferita che si pulisce, a vincere la paura del vuoto dietro cui ci potrebbe essere il pieno che non si conosce; richiede una disponibilità a farsi guidare dal suo sentire profondo.
La presenza è il focolare dell’ispirazione, quel sentire tanto sottile che vuole essere coltivato con molta attenzione. E’ come un vento leggero che spira e guida.
L’artista ne ha tanto bisogno, come il terapeuta e il ricercatore, prima di tutto per se stesso.
Si può chiamare in tanti modi, come tante sono le sue sfumature (insight, intuizione, intelligenza istintiva, intelligenza emotiva, ispirazione) ma si tratta sempre dello stesso alito che proviene dalla parte più vicina a noi, spesso trascurata.
L’ispirazione, la chiamata, la voce che suggerisce e comanda, che accompagna il ricercatore spirituale, sostiene anche l’artista e il terapeuta: l’artista la infonde nell’opera per completarsi, sanarsi, sperando che possa servire ad altri, il terapeuta, il counsellor crea con la sua presenza lo spazio e il tempo opportuni affinché esseri umani che soffrono o sono semplicemente disorientati, disadattati, la riscoprano dentro di sé. E facciano della loro vita, del loro semplice quotidiano, un’opera creativa e in qualche caso artistica.