di G. Paolo Quattrini
Pubblicato sul numero 14 di Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia
Moreno e lo psicodramma
D. – Come si può usare il teatro per la psicoterapia?
R. – Esiste proprio una tecnica psicoterapeutica basata sul teatro, lo psicodramma, dove la terapia consiste appunto nell’interpretare delle parti in storie incompiute della propria vita, oppure in sogni presi come storie, o in storie di altri: insomma nel fare l’attore. Mentre nell’essere spettatore non c’è una differenza sostanziale fra teatro, cinema, televisione, radio o carta stampata, perché in tutti questi casi oltre all’effetto catartico è il potere strutturante della storia che agisce, come attore entrano in ballo anche altri fenomeni, come per esempio la capacità espressiva, e il relativo processo di coordinamento.
D. – Ma la capacità di esprimersi non è innata?
R. – I singoli movimenti espressivi fanno certamente parte del corredo genetico, ma usarli coordinatamente e in modo consapevole come elementi di comunicazione richiede un processo di apprendimento che spesso nella vita non si ha occasione di fare: questo lascia quell’inefficacia nel modo di comportarsi in pubblico che è responsabile di tante emarginazioni adolescenziali. Moreno, un viennese trapiantato in America, sviluppò agli inizi del secolo una psicoterapia basata sul teatro . Sogni, situazioni traumatiche, relazioni infelici, tutto quanto invece di essere interpretato veniva rappresentato scenicamente dai componenti dal gruppo di terapia, in modo che elementi nuovi affiorassero nella consapevolezza dei pazienti attraverso la rappresentazione dei vari ruoli, dall’accorgersi di avere la capacità di barcamenarsi in esperienze sempre evitate, alla scoperta di lati non visti della situazione stessa e delle persone messe nei vari ruoli, e a uno sviluppo della capacità di immedesimazione che è indispensabile per capire e conoscere gli altri e quindi poterli amare, e per poter esercitare l’antica massima “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, unico baluardo realistico contro la distruttività .
D. – Moreno ha elaborato una teoria dello psicodramma?
R. – Moreno ha teorizzato la cosiddetta sociometria: secondo questa teoria, venire a conoscenza delle reazioni emotive degli altri componenti di un gruppo nei propri confronti e far conoscere le proprie agli altri permette di stabilire delle relazioni sociali più all’insegna dell’affetto e della soddisfazione che dell’aggressività e della chiusura, cosa che è stata poi abbondantemente comprovata dalla pratica della sua e di varie altre scuole. Oltre a questo, riteneva che le persone avessero bisogno di vivere fino in fondo le loro storie, belle o brutte che siano. In questa parte del suo pensiero si possono vedere analogie con le antiche pratiche iniziatiche del mondo classico, come per esempio i misteri Eleusini, in cui la persona veniva probabilmente introdotta all’esperienza del ciclo, il mistero del ripetersi annuale della morte e della rinascita di piante e animali che regola tutta la natura.
D. – Cosa c’entra con questo il teatro?
R. – Anche la rappresentazione teatrale in fondo è l’iniziazione a un ciclo, all’evoluzione ciclica cioè delle emozioni all’interno dei rapporti umani. Le emozioni infatti nascono, si placano e di nuovo ritornano, senza necessariamente rompere il loro contenitore, cioè appunto il rapporto con l’altra persona, cosa che non tutti sono riusciti a sperimentare da piccoli con i loro genitori. Chi non ha potuto farlo si trova poi costretto a evitare quegli stati emotivi che minacciano con la loro violenza l’integrità del rapporto, finendo così per reprimere la parte dionisiaca della propria esistenza.
D. – E’ importante anche l’uso della voce?
R. – L’uso di tutto il corpo entra a far parte del processo terapeutico: voce, movimento e coinvolgimento emotivo dichiarato fino all’esagerazione scenica, cosa che ha un’importanza non indifferente, perché le ristrutturazioni dell’equilibrio psichico sono meno difficili da ottenere in uno stato emotivo alterato che nella solidità difensiva della calma.
Reich
D. – La psicoterapia si può fare direttamente sul corpo?
R. – A parte le tecniche che tendono a raggiungere una maggiore padronanza e articolazione psichica attraverso la consapevolezza corporea, come l’Eutonia, il Feldenkreis e lo Yoga, o quelle che tendono a rilassare tutta la muscolatura dalle tensioni croniche attraverso il massaggio connettivale, come il Rolfing, ci sono vere e proprie psicoterapie centrate sul corpo, che lavorano per disattivare quella che Reich chiama la “corazza caratteriale” e per raggiungere i livelli esplosivi dell’emotività, sia in funzione catartica, cioè di superamento della coazione a impedire il flusso delle emozioni, sia allo scopo di integrare le capacità interattive che l’emozione in qualità di organo psichico rappresenta: Vegetoterapia, Bioenergetica e Body Work sono scuole di derivazione reichiana con mutamenti di varia entità e apporti di varie provenienze.
D. – Cos’è la corazza caratteriale?
R. – Dall’osservazione clinica Reich si accorse della presenza di alcune aree in cui una determinata funzione psichica poteva essere inibita attraverso la tensione muscolare e permessa dal rilassamento. Per difendersi da pulsioni scomode e pericolose le persone adottano certe posture fisiche che aiutano a tenere contratte queste parti, come per esempio muoversi con il bacino rigido come se fosse tutto d’un pezzo, cioè senza articolarlo sulle anche e sulla spina dorsale, il che permette di controllare meglio gli impulsi sessuali. Oppure come stare ripiegati in avanti, che oltre a diminuire le proprie dimensioni fisiche in segno di sottomissione, serve a schiacciare l’area del plesso solare e a deprimere l’aggressività. Queste posture difensive si sviluppano nell’infanzia e diventano poi automatiche e croniche, così che nell’autopercezione della persona risultano “normali”, cioè elementi del proprio carattere: è questa che Reich chiamò “corazza caratteriale”. Intanto, dagli studi sullo Yoga si veniva a sapere che anche questa millenaria tradizione di addestramento psicofisico riconosceva, su base empirica, la presenza di aree analoghe, a cui dava il nome di chakra, e che considerava come centraline attraverso le quali l’energia psichica poteva essere controllata, o almeno regolata.
D. – Quali sono questi chakra ?
R. – Generalmente ne vengono considerati sette come principali:
1) il chakra situato alla radice della spina dorsale;
2) il chakra che è all’altezza dei genitali;
3) il chakra situato alla bocca dello stomaco;
4) il chakra del cuore;
5) il chakra della gola;
6) il chakra della fronte, situato fra gli occhi;
7) il chakra della sommità della testa,.
D. – Si sentono fisicamente i chakra ?
R. – Con un certo esercizio di consapevolezza corporea possono diventare percepibili sensorialmente: si sentono come sorgenti di un lieve irradiamento di calore mentre la funzione psichica relativa è quiescente, e si incendiano quando entra pienamente in funzione.
D. – Perché?
R. – E’ noto per esempio che i motori danno il massimo della loro potenza al massimo dei giri, mentre a bassi giri rendono poco e se hanno da fare grossi sforzi non ce la fanno: così una persona che ha solo stati emozionali blandi sulle salite impegnative della vita ce la fa male, nel senso che per esempio chi si arrabbia poco ha difficoltà a difendersi, chi è poco preso sessualmente ha difficoltà a coinvolgere altri, etc. Insomma le funzioni vitali a cui gli stati emozionali sono demandati vengono lesionate in proporzione alla distanza a cui questi sono tenuti dal livello esplosivo, e solo se è in grado di raggiungerlo una persona si può dire pienamente in possesso delle sue facoltà psicofisiche.
D. – Questo vuol dire che per Reich bisogna per forza essere persone emozionabili?
R. – Effettivamente il tema della scarica emotiva è centrale nel pensiero di Reich, che teorizzò fra le funzioni dell’orgasmo anche quella igienica. Essendo infatti la vita pulsionale soggetta a un ritmo naturale continuo di carica e scarica, se si interferisce con questo ritmo impedendo la scarica secondo Reich si formano degli accumuli di emotività trattenuta che disturbano l’organismo e finiscono per diventare distruttività: nella sua ottica infatti guerra e sete di potere sono prodotti dalla repressione sessuale. Questa teorizzazione del potere come sintomo porta a gestire il problema del transfert attraverso l’accorciamento della distanza fra il paziente e l’analista, il quale si sottrae alle proiezioni di grandiosità dell’altro presentandosi in sostanza come una persona in buona salute per l’uso di certe modalità di gestione del corpo e dell’emotività, che è lì per insegnare a chi le vuole imparare: in questo modo le resistenze coscienti sono problema del paziente, e quelle inconscie vengono sciolte attraverso esercizi fisici specifici.
D. – Allora l’analista reichiano è come un insegnante?
R. – Certamente non è ammantato di un’aura di mistero come quello freudiano o junghiano, gestisce il potere in maniera meno autoritaria ed è fortemente orientato su funzioni didattiche: nel pensiero di Reich la società ha una grandissima influenza sulla persona, e l’apprendimento è la strada maestra per la libertà personale e politica.
Pedagogia delle emozioni
D. – Come si può intervenire sulle emozioni con l’educazione?
R. – In molti modi. Considera per esempio che un fenomeno fondamentale delle vita emotiva è il ciclo della paura e del dolore. Queste due emozioni sono estremamente stressanti e non possono essere rette a lungo dall’organismo, che deve riuscire a liberarsene attraverso la rassicurazione e la consolazione quando l’agente che le attiva non c’è più, oppure a riciclarle come fonti di aggressività nel caso che continui a essere presente:
RASSICURAZIONE RABBIA CONSOLAZIONE
* <———- * ———-> * <———- * ———-> *
PAURA DOLORE
Il passaggio è funzionale solo nel caso che l’emozione non sia trattenuta, perché altrimenti non riesce né a scaricarsi, né a diventare fonte energetica per l’aggressività.
D. – Qual è il compito dei genitori in questo caso?
R. – Il bambino ha bisogno che venga dato un limite alla sua paura, e la madre o chi per lei lo deve aiutare a trovarlo per mezzo della rassicurazione, che a livello primario consiste in un contatto fisico gradevole e accettante : in caso contrario, se per qualche ragione non è potuta diventare rabbia, la paura si espande assumendo dimensioni che poi il bambino è impotente a gestire e dove non è più soccorribile, perché oltre un certo livello di allarme non si fida più di nessuno. Per rimanere aperti all’esperienza pur non avendo la capacità di difendersi, come è il caso dei bambini, bisogna avere un legame solido e piacevole, che dà fiducia: fiducia per esempio di poter fare una scenata senza che la mamma reagisca abbandonandoli. Solo così possono osare muoversi, parlare, agire senza farsi paralizzare dalla paura.
D. – Quindi è importante dare permessi ai bambini?
R. – I permessi e i divieti, quando sono adeguati, sono ugualmente importanti: la grandezza del contenitore di ogni essere vivente, cioè la sua possibilità di espandersi, è sempre relativa alla quantità di informazioni che ha sul mondo, e la mamma sa infinitamente più del bambino su cosa è o non è pericoloso. Se il bambino perde la fiducia nella mamma e deve regolarsi da solo, il suo orizzonte si chiude di colpo, perché non è in grado di darsi permessi in un mondo pieno di pericoli sconosciuti.
D. – Quali sono le emozioni più difficili da gestire?
R. – Emozioni che hanno particolarmente bisogno di essere rispecchiate e contenute sono il dolore (frustrazione compresa) e la paura, soprattutto quando sono relative al rapporto con i genitori. Per esempio, se il bambino ha fatto qualcosa che non va e nella madre trova una faccia fredda e inespressiva, può darsi che si spaventi moltissimo. Se la madre non gli dà nessun segnale su quanto deve spaventarsi è un guaio, perché il bambino può non essere in grado di prevedere realisticamente da solo che cosa succederà, se prenderà due schiaffi, se li prenderà subito oppure la sera a cena, se il giorno dopo gli toccheranno un sacco di botte, o anche, in mancanza di una salda fiducia nei genitori, se non gli daranno più niente da mangiare o addirittura se non lo butteranno fuori di casa. Non sa niente, e spia ansiosamente sulla faccia della mamma qualche segnale, per poter dare un nome alla sua paura. Se non ci riesce può darsi che a questo punto reagisca deprimendosi, cioè si metta a fare il morto, oppure diventi bugiardo, perché ammettere di aver fatto qualcosa è diventato troppo pericoloso, e il fatto è che se un bambino si abbandona alla depressione o non dice più la verità, cioè scappa sistematicamente, è facile che perda il rapporto col mondo.
D. – In che senso?
R. – Per esempio può atrofizzarsi la sua capacità di rivendicazione: magari tutte le volte che chiede qualcosa la madre diventa gelida e lui si spaventa così tanto che piano piano non osa farlo più: così finisce per diventare incapace di chiedere, cioè rimane con un buco nella personalità. Se immagini che poi da grande abbia un figlio, capisci che il figlio andrà a sbattere in questa mancanza, cioè in un genitore con una capacità di chiedere inesistente. Una persona così probabilmente non avrà molta simpatia per le richieste del figlio, e allora il chiedere come modalità di interazione non avrà modo di esistere fra loro, oppure quando il figlio si proverà a chiedere scatenerà una tempesta emotiva nel genitore, che in quell’area non è capace di essere chiaro, cioè di dire sì o no, o qualunque altra risposta precisa.
D. – Che intendi per tempesta emotiva?
R. – Il figlio si troverà probabilmente dentro un ciclone di voci che dicono – sì, no, non voglio, ma sì, ma io volevo, ma no, mi voglio ammazzare, non me ne frega nulla, accidenti a te…- etc. tutte insieme, e un bambino infilato in una tempesta del genere perde l’orientamento e diventa ancora più confuso del genitore, e generazione dopo generazione la patologia tende a allargarsi, se qualcosa non interviene a tenere a bada questo slittamento .
D. – Mi spieghi meglio come mai nel bambino queste cose tendono a ingigantirsi? Capisco che se il bambino entra in un contatto con un’area tempestosa del genitore la tempesta lo coinvolge, ma non mi è chiaro perché la sua situazione debba peggiorare rispetto a quella del genitore.
R. – Per un Io in via di sviluppo la confusione è un grosso guaio. La mente dell’uomo civile infatti, non ha da percorrere solo il cammino dello sviluppo naturale, che è quello che porta semplicemente fino ai livelli degli uomini primitivi e per cui è corredato biologicamente: deve anche avere uno sviluppo culturale, che nei primi anni di vita si basa su complesse interazioni fra genitori e figli assodate dalla tradizione.
D. – E cosa succede se queste interazioni vanno male?
R. – Dove i bambini incontrano situazioni troppo contraddittorie, e quindi difficilmente interpretabili, la loro mente non cresce: in realtà infatti sono i genitori che coltivano in qualche modo la mente dei figli, nutrendola, innaffiandola, attaccandola a dei sostegni e tirandola su, magari rigidamente e in modo sbagliato, ma in qualche maniera facendola sviluppare. Se invece che con reazioni chiare, per quanto discutibili, lo mettono in contatto con una tempesta e il bambino non riesce ad assimilare informazioni abbastanza strutturanti, in quelle zone l’Io non si sviluppa, e quindi da genitori troppo conflittuati per chiedere avremo un figlio che chiedere non sa neanche che cosa vuol dire.
D. – Mi spieghi meglio il rapporto fra paura e rabbia?
R. – Una persona impaurita se si arrabbia smette di avere paura (come anche all’inverso, se si arrabbia troppo può spaventarsi della sua rabbia), e questo bilanciamento fra paura e rabbia è una cosa che deve essere imparata perché è fondamentale per sbrigarsela nel mondo. Infatti una persona che non dà abbastanza ascolto alla paura prima o poi finisce male, mentre uno che non si arrabbia abbastanza rimane indifeso e può succedere che facilmente nella vita venga schiacciato. E’ evidente come la regolazione di questo meccanismo è legata alla quantità di informazioni che si hanno sul mondo, e quindi è chiaro quanto pesa sui figli l’influenza dei genitori.
D. – Cosa devono insegnare i genitori?
R. – E’ importantissimo per esempio che mettano i figli al corrente del fatto che le emozioni hanno un decorso, cioè che cominciano e aumentano d’intensità, ma poi calano e smettono. Se il bambino non viene iniziato a questi misteri, per quello che ne sa lui un’emozione non finisce mai, e ce ne sono alcune che possono essere estremamente sgradevoli: se non sa che hanno un termine e quindi sono contenibili, finisce per averne paura e per tendere a sottrarsi alle situazioni emotivamente cariche. D’altra parte le emozioni sono fondamentali per le interazioni umane, perché comportano quelle modificazioni psicofisiche che mettono il corpo nella condizione più adatta per affrontare le situazioni: per esempio quando uno si arrabbia diventa più forte, e questo succede proprio perché il suo corpo si è adattato fisiologicamente al combattimento.
D. – Le emozioni sono sempre percettibili nel proprio corpo?
R. – Dipende dal livello di consapevolezza fisica della persona, e in più l’emozione si presenta anche sotto forma di azione: se stai scappando per esempio non senti paura, se stai aggredendo non senti rabbia.
D. – Da cosa dipende?
R. – Sembrerebbe come se l’impulso, non realizzato nell’azione, potenziasse l’esperienza sensoriale: sapendo quale rinforzo costituisca il vissuto emotivo, si capisce anche la funzionalità di questo meccanismo.
NOTE
Elemento altrettanto fondamentale del pensiero moreniano è d’altra parte l’importanza di concludere almeno tramite la rappresentazione certe situazioni incompiute a cui l’anima della persona è aggrappata.
Non poco appariscenti, che è tutt’altra cosa, perché ci sono infinite strade per raggiungere la meta.
I coniugi Harlow, una coppia di psicologi noti per le loro ricerche sui primati, ha condotto il seguente esperimento: due piccole scimmie vengono allevate in gabbia, ambedue con madre artificiale. Una delle due ha come madre un pupazzo di metallo, freddo e sgradevole al contatto, l’altra un pupazzo di peluche, morbido e piacevole. A un certo punto nella gabbia viene introdotto un insetto artificiale di grosse dimensioni, e vengono osservate le reazioni dei piccoli. Mentre la scimmia con la madre artificiale di metallo, paralizzata dalla paura si rifugia in un angolo della gabbia e non si muove più, l’altra salta invece strillando sulla madre di peluche e ci rimane attaccata per un po’, terrorizzata: poi si calma, scende e piano piano, con precauzione, si avvicina all’oggetto sconosciuto, lo esplora, e scoperto che è innocuo alla fine lo utilizza come giocattolo. Questo esperimento lascia chiaramente intuire l’importanza della piacevolezza del contatto fisico nello sviluppo psichico dei mammiferi (è da tenere presente che il contatto fisico è fonte di una sensualità che non necessariamente sconfina nella sessualità, e che quindi non è in contrasto con i divieti edipici).
Qualcosa che può essere anche una autodisciplina del genitore, basata su senso morale o su consapevolezza, oppure la pressione dell’ambiente intorno, oppure la presenza di figure sostitutive, etc.
NOTE
Più recentemente è nato il cosiddetto psicodramma analitico, con basi teoriche e modalità tecniche molto diverse.
Elemento altrettanto fondamentale del pensiero moreniano è d’altra parte l’importanza di concludere almeno tramite la rappresentazione certe situazioni incompiute a cui l’anima della persona è aggrappata.
Non poco appariscenti, che è tutt’altra cosa, perché ci sono infinite strade per raggiungere la meta.
I coniugi Harlow, una coppia di psicologi noti per le loro ricerche sui primati, ha condotto il seguente esperimento: due piccole scimmie vengono allevate in gabbia, ambedue con madre artificiale. Una delle due ha come madre un pupazzo di metallo, freddo e sgradevole al contatto, l’altra un pupazzo di peluche, morbido e piacevole. A un certo punto nella gabbia viene introdotto un insetto artificiale di grosse dimensioni, e vengono osservate le reazioni dei piccoli. Mentre la scimmia con la madre artificiale di metallo, paralizzata dalla paura si rifugia in un angolo della gabbia e non si muove più, l’altra salta invece strillando sulla madre di peluche e ci rimane attaccata per un po’, terrorizzata: poi si calma, scende e piano piano, con precauzione, si avvicina all’oggetto sconosciuto, lo esplora, e scoperto che è innocuo alla fine lo utilizza come giocattolo. Questo esperimento lascia chiaramente intuire l’importanza della piacevolezza del contatto fisico nello sviluppo psichico dei mammiferi (è da tenere presente che il contatto fisico è fonte di una sensualità che non necessariamente sconfina nella sessualità, e che quindi non è in contrasto con i divieti edipici).
Qualcosa che può essere anche una autodisciplina del genitore, basata su senso morale o su consapevolezza, oppure la pressione dell’ambiente intorno, oppure la presenza di figure sostitutive, etc.